Mentre i ragazzi delle medie e delle superiori in questi giorni sono impegnati negli esami, Valentina Petri, insegnante e scrittrice, autrice del best seller “Portami il diario”, in libreria in questi giorni con “Vai al Posto” (Rizzoli) ci racconta la bellezza spesso nascosta e sicuramente indimenticabile della scuola.
di Valentina Petri
La scuola sta finendo, che detto così sembra un tormentone estivo. Per molti più che un tormentone la scuola è ed è stata un tormento. Di certo questi due anni di pandemia non hanno aiutato, tra distanziamenti, capienze massime, mascherine dall’elastico floscio e cascate di gel igienizzante, circolari deliranti e a tratti allucinanti per la gestione dei casi di positività. Quando ho scritto il mio secondo romanzo, in piena follia da zona rossa, nonostante fossimo già tutti abbastanza scafati da gestire la dad o ddi o come accidenti si chiama, ecco, quando ho scritto il mio secondo romanzo, “Vai al posto”, ho voluto soltanto rifugiarmi in un passato vicino ma già lontanissimo e raccontare la scuola “normale”. Ammesso che la scuola possa mai definirsi normale. Che poi la normalità cos’è. Eppure la sua bellezza sta proprio nella sua imprevedibilità. La scuola è un luogo eternamente uguale a se stesso e sempre diverso ogni giorno. Dove capita di ritrovarsi, come la prof del libro - che è sempre Quella Nuova- , ad avere di colpo due classi che si odiano e che diventano una classe sola per motivi burocratici. Capita di vivere anni che sulla carta dovrebbero essere tranquillissimi e poi ci portano lontano, ad inseguire un progetto, uno dei mille progetti scolastici che nessuno vuole mai fare perché, diciamocelo, sono soltanto rotture di scatole in più e invece poi i ragazzi si appassionano e magari finisce che lo vincono. E tocca accompagnarli alla premiazione, che significa una trasferta nella Capitale, con tre classi al seguito impegnatissime a rendere la vita impossibile a tutto il corpo docente.
Ci ho messo tutto quello che mi è mancato, nel mio romanzo: ci ho messo i grandi amori che nascono tra i banchi, le scene da film che se uno non è in classe non ci crede e ogni volta che le si racconta diventano sempre più epiche. Ci ho messo i colleghi, quelli appassionati e quelli esausti, quelli che ci provano tutti i giorni e quelli che non l’avresti mai detto ma poi alla fine meno male che ci sono. Ci ho messo la difficoltà di essere adolescenti, oggi, in un mondo dove una parola può ferire e una foto condivisa all’infinito metterti alla gogna; ci ho messo la bellezza di imparare a conoscere le motivazioni dell’altro e rispettarne i valori. Ci ho messo i miei ragazzi e se non sono proprio i miei studenti, sono studenti che ci assomigliano molto: disincantati, ironici, assopiti nel cappuccio della felpa, affamati di vita e di panini cotto e maionese, pronti ad indignarsi, ancor più pronti a far casino, a nascondersi in dieci nella stessa stanza d’albergo in gita e a farsi prendere dal panico all’esame. Ci ho messo la maturità che sembra un rito ormai consunto ma quando tocca a te fa ancora paura. Ci ho messo la scuola come credo che debba essere: cioè un posto dove si è costretti a convivere, davvero, fisicamente, in uno stesso spazio, e dove alla fine si impara a stare insieme.