INCROCI, TRIANGOLI, OPERE D’ARTE E 300 MILA PIANTE DI BAMBÙ. VISITARE IL LABIRINTO DELLA MASONE A FONTANELLATO, RISCHIANDO DI PERDERSI, È UN’ESPERIENZA DAL FASCINO UNICO E IRRIPETIBILE.
di Paolo Marcesini
“Il mio è un labirinto e anche un giardino (…). Il Giardino, o Eden incarna l’innocenza e la felicità: il labirinto è, invece, una fonte di turbamenti: riflette la perplessa esperienza che abbiamo della realtà e la fatica nel percorrere la vita”. Scrive Franco Maria Ricci.
E così ci vado nel Labirinto della Masone di Fontanellato. Non mi interessano le ricerche spirituali, non sono affascinato da chi cerca nella storia della simbologia delle risposte alle nostre pene quotidiane, ma sono terribilmente attratto da quell’utopia reale fatta di mattoni e bambù realizzata da Franco Maria Ricci e che oggi ne custodisce la memoria.
Ricordo una sua foto che lo ritraeva con una rosa di bachelite all’occhiello (storia troppo lunga da raccontare) a testimonianza di un’eleganza personale, fuori dagli schemi, originale e mai banale. Lo hanno definito il banchiere della bellezza, di sicuro è l’uomo che più di chiunque altro ha saputo vendere “tutto ciò che è stato conservato male e goduto peggio”.
“Si entra da una sola porta e si può uscire solo da una porta. L’utopia è tutta lì, immersa nelle 300mila piante di bambù, tra cerchi, triangoli, incroci e piramidi.”
Passeggiando con Jorge Luis Borges, il grande scrittore argentino, ormai cieco in quelle sue terre vicino a Parma, discutendo di labirinti, dedali, percorsi, domande senza risposte e risposte senza domande, pene, dolori, speranze, libri letti e libri da creare, un giorno disse forse incautamente: costruirò il più grande labirinto del mondo. Borges, che di labirinti se ne intendeva, gli rispose che il più grande labirinto del mondo esisteva già ed era il deserto. Più prosaicamente all’editore Ricci rimaneva da risolvere una questione di non poco conto: “Per costruire qualcosa del genere mi mancavano quelle che Borges amava chiamare le notevoli risorse dell’Onnipotenza”. Risorse che sono alla fine son arrivate.
Ed eccomi qua. Metto in fila le emozioni. La struttura mi saluta con calcolata freddezza. È severa, spigolosa, mi racconta una storia che forse non capisco, mi accoglie ma senza abbracciarmi. Ma è solo apparenza, l’abbraccio caldo e sincero arriverà presto e sarà indimenticabile. La libreria all’ingresso è sontuosa. Vedo subito i 18 volumi della ristampa dall’edizione originale dell’Encyclopedie di Diderot e d‘Alembert dedicata a Roland Barthes. Poco distante la raccolta completa della “Biblioteca di Babele” diretta da Jorge Luis Borges. Una vetrina di desideri che in pochi possono permettersi, ma che tutti possono ammirare. Entro finalmente nel labirinto. Mi danno una cartina, senza di lei confesso candidamente che non avrei mai raggiunto l’uscita. Le 300 mila piante di bambù mi accolgono subito con l’emozione dei colori, dell’altezza, della varietà e della freschezza dei fusti mi confondono, distraggono, mi portano in piazzole, vicoli ciechi strade senza uscite, biforcazioni senza un perché. Il loro è un abbraccio caldo, caldissimo. Arrivo finalmente nella piazza centrale, salgo nella piramide, il labirinto diventa un pavimento, un tabernacolo, un insieme irregolare di solidi platonici e la simbologia mi ricorda che qua stiamo davvero raccontando tante storie o forse nessuna. O forse solo una. Entro nel vero labirinto, la collezione privata di Franco Maria Ricci, stanze che ti ricevono con un susseguirsi di statue neoclassiche, ritratti, numeri e lettere, volumi originali stampati da Bodoni (tutto inizia da quei caratteri, la storia è nota), introvabili prime edizioni (sfoglio, leggo e annuso Il castello dei destini incrociati, il libro dei tarocchi con quel testo magico e meraviglioso di Italo Calvino e mi incanto di fronte alla raccolta completa di FMR la rivista, la “perla nera” che Jacqueline Kennedy definì la più bella del mondo con quelle iniziali che in francese suonano la parola éphémère. Un’ossessione quella dell’effimero che trova le sue forme in tutto quello che vedo intorno a me, perché l’effimero per Ricci non era mai sinonimo del nulla ma semmai del tutto. Ricordo di aver letto una citazione di Roberto Calasso, molto amata da Franco Maria Ricci, che definisce il traguardo più audace e ambizioso di un editore che consideri la sua attività un’arte: “Pubblicare libri che possano essere visti come anelli di un’unica catena, o segmenti di un serpente di libri, o frammenti di un singolo libro formato da tutti i libri pubblicati”.
Oggi a Fontanellato ho incontrato per la prima volta un Labirinto. Si entra da una sola porta e si può uscire solo da una porta. L’utopia è tutta lì, immersa nelle 300mila piante di bambù, tra cerchi, triangoli, incroci e piramidi. Ho camminato nel labirinto, l’ho fatto per due volte. La seconda avevo la torcia perché viene buio presto in questa stagione. Alla fine del cammino ho visto il mangiatore di fuoco, il quadro della morte e i caratteri Bodoni che stampati hanno inventato la scrittura che sto usando anch’io in questo momento. Ho comprato un libro, il mio omaggio a tutti i labirinti, compreso il mio. La commessa mi dice che è l’ultima copia. Non ce ne sono altre e forse non ce ne saranno altre nemmeno in futuro.
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